Venezia 55^ Esposizione
Internazionale d’Arte: Il Palazzo Enciclopedico
Nel novembre del 1955
l’artista italo-americano Marino Auriti depositò presso l’ufficio brevetti dei
progetti per un Palazzo Enciclopedico ovvero un museo immaginario che avrebbe
dovuto ospitare tutto il sapere dell’umanità. Il progetto non è mai stato
realizzato ma è stato di ispirazione al curatore Massimiliano Gioni per
sviluppare il tema della 55^ Biennale di Venezia.
La mostra, come il
Palazzo Enciclopedico di Auriti, di cui prende il nome, indaga il desiderio
impossibile, che attraversa da sempre la storia dell’umanità accomunando
personaggi eccentrici, artisti, scrittori, scienziati e profeti, di conoscere
tutto e, spaziando dall’inizio del Novecento ad oggi, raccoglie opere d’arte,
reperti storici e artefatti sia di artisti professionisti che di dilettanti. Il
curatore sembra invitarci ad indagare il mondo degli artisti per riflettere su
che cosa ispira la loro creatività e qual è il confine dell’arte.
Che cosa è arte? E che
ruolo gioca la realtà ordinaria sulle spinte creative degli artisti? Quale
spazio è concesso al sogno, alle visioni e alle immagini interiori in un’epoca
assediata dalle immagini esteriori?
Il palazzo
enciclopedico progettato da Auriti
J. D. ‘Okhai Ojeikere, Nigeria 1930
Cresciuto in un piccolo
villaggio nigeriano, l’artista alla fine degli anni Sessanta cominciò a
documentare i diversi aspetti della cultura nigeriana immortalando le elaborate
acconciature e i turbanti delle donne, le cui complesse architetture possono
richiedere giorni o anche settimane per essere completate. Le immagini non
rappresentano solo una semplice antologia dei volubili capricci della moda o
della perizia virtuosistica degli acconciatori ma documentano anche gli stili
tradizionali di alcuni gruppi etnici, il loro significato (ad esempio la
posizione sociale) e l’evoluzione dei cambiamenti individuali e collettivi della
Nigeria dopo che i tradizionali confini etnici avevano iniziato a
dissolversi.
Eduard
Spelterini, Switzerland 1852-1931
Nel 1858 il fotografo e
aeronauta francese Gaspard-Felix noto come Nadar, scattò a bordo di un pallone
aerostatico la prima fotografia aerea che si conosca. L’immagine, oggi perduta,
diede il via alla moda della fotografia aeronautica. Uno dei più importanti
professionisti di questo nuovo genere fotografico fu Eduard Spelterini, un
ascensionista di fama mondiale che fu il primo a varcare le alpi per via aerea
nel 1898. Le fotografie di Spelterini divennero famose quando cominciò a
presentare al pubblico le sue spedizioni in pallone aerostatico mediante
spettacoli di proiezioni di diapositive
all’avanguardia.
Stefan Bertalan, Romania 1930
Secondo l’artista
rumeno l’intrinseca complessità presente nei più semplici elementi naturali come
le piante o gli insetti, permea il quotidiano di un profondo significato
spirituale e filosofico e fornisce un mezzo per l’espressione individuale.
Riflettendo sulle strutture geometriche che sottostanno al mondo naturale e
attingendo a nozioni ingegneristiche, biologiche, matematiche e filosofiche
l’artista arriva alla conclusione che un singolo organismo funge da microcosmo
simbolico dell’intero universo. Questa deduzione nacque dopo che l’artista
studiò per 130 giorni l’intero ciclo vitale di un girasole documentando le
evoluzioni con fotografie, disegni e un diario.
Hans Josephsohn, Russia 1920-2012
Nato nella Prussia
orientale, l’artista fuggì dal Terzo Reich nel 1938 rifugiandosi in Svizzera.
Rifacendosi al vocabolario riduttivo delle cattedrali romaniche e alla
rappresentazione del corpo umano nella scultura medievale, l’artista sviluppò
sculture e rilievi appena abbozzati. Le sculture sembrano rappresentare il mito
del Golem, una figura immaginaria del folklore ebraico che secondo la leggenda
era stato plasmato nella creta da un rabbino nel tentativo di proteggere gli
abitanti del ghetto di Praga. In maniera simile le mezze figure e le stele di
Josephsohn sembrano sentinelle in attesa o sculture
votive.
Yuksel Arslan, Turkey 1933
Noto come
“l’artista-lettore” per le centinaia di opere filosofiche, storiche, letterarie
e scientifiche su cui si è cimentato, produce a partire da 1955 una serie di
oltre settecento opere note con il nome di Artures, un neologismo composto da “art” e
dal suffisso francese –ture, che costituiscono palinsesti reinventati di storie
religiose, trattati filosofici e tassonomie biologiche. L’artista attinge ai
suoi studi su diversi scrittori e pensatori o alle sue indagini sulle diverse
condizioni mentali e fisiche dell’uomo (es Morbo di Parkinson, impotenza,
aprassia etc)
Ossessive e dettagliate
le opere dell’artista sono rappresentate con una formula pittorica a base di
potassa, miele, albume d’uovo, olio, midollo osseo, sangue e urina che
determinano il prevalere del paglierino e del rossastro nella sua tavolozza,
conferendo al lavoro dell’artista una qualità organica e personale.
Phyllida Barlow, UK 1944
Molta della produzione
di questa artista consiste in sculture di grande formato prodotte con materiali
economici e di recupero che invadono volutamente lo spazio espositivo creando
ostacoli ed intralci che paiono simulare aspetti trascurati del paesaggio
urbano. Una sorta di monumentalizzazione dei detriti della vita contemporanea.
Spesso le sculture stesse vengono riciclate e riutilizzate smantellandole e
riconfigurandole in nuove combinazioni. L’artista ha cominciato ad acquisire
fama internazionale solo di recente.
Jakub
Julian Ziolkòwski, Poland 1980
I fantasmagorici
dipinti di questo artista pulsano e brulicano di vita mutante: dalle piante
germogliano seni e bulbi oculari; gli organi interni si fanno strada fuori dai
corpi come vermi e da oggetti inanimati spuntano capelli mentre i volti si
deformano come affetti da innominabili virus. Nel loro insieme questi elementi
tracciano la topografia di un mondo oscuro e surreale nel quale la natura è una
minaccia permanente e gli inquietanti paesaggi mentali dell’artista sembrano
espandersi a dismisura. L’artista definisce questi dipinti la “cosmologia delle mie bestie personali”
ovvero una visione di ciò che accade quando la mente diventa essa stessa un
pianeta.
Shinichi Sawada, Japan 1982
Affetto da una grave
forma di autismo, Shinichi Sawada parla a stento e preferisce esprimersi
attraverso le sue sculture che attingono ad una mitologia personale ispirata
probabilmente all’antica tradizione popolare giapponese; un bestiario in
continua espansione di figure e maschere di creta, che ha iniziato a produrre
nel 2001 mentre risiedeva in una struttura per persone affette da disturbi
mentali. Ora l’artista vive autonomamente e si reca con regolarità nello studio
in cima a una montagna dove modella e cuoce i suoi lavori. Tutte le opere –
draghi, demoni, figure totemiche dai molteplici volti, maschere contorte e
ululanti – sono irte di spuntoni di creta, che conferiscono loro una bellezza
intricata e ornamentale ma anche un carattere minaccioso. E’ interessante notare
come le opere richiamino alla mente anche le arti delle società tribali
dell’Africa con cui l’artista potrebbe essere venuto in contatto tramite
riproduzioni. Le punte ricordano i segni lasciati dalle pratiche rituali di
scarificazione il cui significato sembrerebbe quello di tener lontana la morte
mentre i chiodi conficcati, di cui sono ricoperte le figure antropomorfe,
sembrano avere carattere protettivo. Le misteriose creature di Sawada sembrano
talismani e la ripetizione delle forme suggerisce un qualche potere curativo. In
ogni caso sono testimonianze evocative ed enigmatiche della vita interiore
dell’artista.
Arthur Bispo do Rosàrio, Brazil ca.1910-1989
Durante cinque decenni
di ricovero in un ospedale psichiatrico di Rio de Janeiro, l’artista ha prodotto
oltre ottocento arazzi, sculture e sontuose vesti cerimoniali per il Giudizio
Universale. Ex guardia marina faceva lavoretti saltuari quando nel 1938 ebbe una
visione: Cristo e una schiera di angeli azzurri gli dissero che era stato scelto
per presentare a Dio, alla fine dei tempi, il contenuto del mondo che riteneva
degno di redenzione. Subito dopo aver raccontato questa apparizione Bispo fu
internato in manicomio, dove trascorse il resto della vita, continuando ad
inventariare meticolosamente ciò che riteneva sarebbe stato chiamato a
presentare a Dio. Benvoluto dal personale ospedaliero, che gli risparmiò i
trattamenti più brutali, fu lasciato libero di aggirarsi liberamente per la
struttura e ottenne il permesso di raccogliere materiale per il suo lavoro che,
depositato nella soffitta in cui lavorava, con il passare degli anni iniziò a
invadere il resto dell’ospedale. Molte opere sono ricamate secondo un’arte usata
tradizionalmente dagli uomini della città natale per creare stendardi religiosi.
Con lenzuola, capi di abbigliamento scartati e scampoli di tessuto, e
utilizzando spesso un filo azzurro ricavato dalle divise dell’ospedale,
l’artista ha creato elaborati arazzi in cui sono catalogati nomi, navi e
segnalazioni marittime, profezie, poesie, pittogrammi e testi che parlano
dell’amore impossibile. Altre opere comprendono ordinati schieramenti di oggetti
trovati o fatti a mano. Bispo creò intere flotte di navi in miniatura, eco del
suo passato di marinaio e auspicio del suo futuro ruolo: come Noè raccoglieva il
mondo nella sua arca da bricoleur.
I disegni Panos
Disegnati dai reclusi
delle prigioni degli Stati Uniti sudoccidentali, i panos o tessuti, sono parte di una
tradizione artistica profondamente radicata nella cultura messicano-americana.
Sono realizzati con mezzi assai spartani: penne biro e qualsiasi tipo di
fazzoletto si possa trovare nello spaccio del carcere ed entrano a far parte
dell’economia interna della prigione ( un pano, per esempio, può essere scambiato
con due pacchetti di sigarette); al contempo costituiscono una forma di
comunicazione con il mondo esterno. I reclusi mandano ai loro cari, come segno
di affetto, panos fatti da loro o
commissionati ad altri carcerati e in passato, attraverso riviste chicane, gli
artisti dei panos erano soliti
anche mettere annunci per cercare persone con cui scambiarsi lettere, creando
contatti con donne attratte dalla prospettiva romantica di corrispondere con
uomini in prigione.
Ogni artista possiede
un personale catalogo di copie di motivi che inserisce nei suoi disegni, tratti
da fonti varie come riviste pornografiche o di automobili, libri di storia
messicana, iconografia cattolica e fumetti. Soggetti ricorrenti sono i diversi
aspetti della vita dei carcerati: l’angoscia della reclusione, la droga, la
violenza e altri risvolti della vita di strada; storie d’amore, reali e
immaginate; simboli di devozione religiosa e di orgoglio etnico. Le immagini
riflettono l’estetica dei graffiti del barrio e hanno analogie con quella dei
tatuaggi; i panos permettono ai
prigionieri di resistere agli effetti disumanizzanti della carcerazione
semplicemente attraverso la forza di immagini che restituiscono identità
personale e collettiva, preservano ricordi e veicolano l’espressione dei
desideri fisici e spirituali.
Bandiere
vudù haitiane
Come molti aspetti
della cultura caraibica, il vudù ha profonde radici in Africa ma nel corso dei
secoli molte divinità haitiane sono state elaborate e alterate amalgamandosi con
divinità amerindie ed europee, in particolare con i santi della Chiesa cattolica
a cui si aggiungono generali, rivoluzionari, uomini di stato haitiani e spiriti
ancestrali. Le cerimonie vudù si aprono con sfilate di striscioni riccamente
decorati che rappresentano divinità o spiriti che possono essere invocati per
ricevere aiuto e consigli offrendo ai credenti un conforto e una guida
immediati. Come gli esseri umani che li evocano, tuttavia, sono anche soggetti
all’ira alla lussuria e alla gelosia.
Linda Fregni Nagler, Sweden 1976
L’artista ha accumulato
centinaia di fotografie amatoriali e commerciali dell’Ottocento e del primo
Novecento organizzando la sua collezione secondo temi e generi precisi. La
collezione raccolta sotto il titolo The
Hidden Mother è composta da quasi mille immagini originali di neonati
tenuti in braccio da figure che sono nascoste ma visibili sullo sfondo. I lunghi
tempi di esposizione richiesti dalle prime tecniche fotografiche rappresentavano
un ostacolo per i genitori che volevano avere fotografie in cui fossero presenti
solo i figli. Solo se tenuti in grembo o in braccio i bambini riuscivano a
rimanere fermi per il tempo necessario a realizzare le immagini. Ecco allora
che, ricoperte da drappeggi, appostate su un lato dell’inquadratura o nascoste
da qualcosa, le madri – più raramente i padri - tentavano di sparire diventando
però all’occhio dell’osservatore esterno, delle presenze inquietanti. Le
immagini mostrano analogie anche con un genere diffuso agli albori della
fotografia ovvero il “post
mortem” cioè la fotografia di defunti, specialmente bambini, che
venivano vestiti e messi in posa come se fossero vivi. Usare la fotografia per
far resuscitare i morti, o al contrario per cancellare gli esseri viventi,
rivela un singolare impulso umano: il rifiuto della pretesa rappresentazione
oggettiva della fotografia e il tentativo di creare invece, attraverso la
fotografia stessa, una realtà che corrisponde ai nostri
desideri.
Ex
voto del santuario di Romituzzo. XVI-XIX sec. Ca , Siena –
Italia
Per millenni, le forme
e lo stile degli ex voto sono rimasti prevalentemente invariati nonostante la
loro sorprendente diffusione. Nelle varie culture e nei periodi storici più
disparati offrono uno sbocco all’ “inestirpabile desiderio primitivo di avvicinarsi al
divino”. La collezione di offerte votive qui presentata si è composta
nel corso di secoli nella cappella del santuario di Romituzzo, un eremo del
Trecento a nord di Siena. Poco dopo la fondazione del santuario, un dipinto
anonimo della Madonna con il
Bambino iniziò ad essere venerato dai devoti che, attribuendogli un
miracoloso potere curativo, lasciavano offerte come supplica o per gratitudine.
A metà del Cinquecento, fu costruita la cappella, per proteggere il quadro e
ospitare l’enorme quantità di sculture anatomiche che si stava rapidamente
accumulando. Gli ex voto contano ora oltre 5000 pezzi e raffigurano le diverse
parti del corpo bisognose di guarigione: teste, gambe,piedi,mani,braccia, mezze
figure e busti. Nel santuario sono ospitate anche figure intere a grandezza
naturale. Gli ex voto erano per lo più fabbricati in cartapesta da artigiani.
Nel corso dei secoli i colori della vernice che un tempo li decoravano si sono
sbiaditi mantenendo visibili solo scarse tracce: appesi sulle pareti con lunghe
corde, con il loro aspetto pallido e le forme eterogenee e ripetitive, evocano
un ossario. Sia per il fedele che per i non credenti, tuttavia, questa
profusione di rappresentazioni crude e seriali del corpo, rimane
un’impressionante manifestazione del potere e dell’efficacia delle
immagini.
Carol
Rama, Torino Italia 1918
L’interesse per l’arte
che Carol Rama aveva sviluppato già da bambina la spinse a dipingere con il
rossetto e lo smalto per unghie della madre. Tuttavia a segnare il suo lavoro,
oltre a questi primi esperimenti con media insoliti, sono stati due traumi
infantili: il suicidio del padre, in seguito al fallimento della sua azienda
automobilistica, e i frequenti ricoveri in ospedali psichiatrici della madre
affetta da disturbi mentali. Fin dall’inizio della sua carriera, Rama ha
considerato l’arte come una forma di terapia. Anche se non aveva mai studiato
arte, Rama strinse rapporti con molti artisti, in particolare con il pittore
Felice Casorati. Nel ’45 la polizia italiana confiscò le opere della sua prima
mostra, ancor prima che venisse inaugurata, per il contenuto sessualmente
esplicito. Le tematiche erano provocatorie e in anticipo sui tempi:
raffigurazioni esplicite ed audaci della sessualità, che sfidavano i
tradizionali ruoli di genere, severamente difesi dal fascismo, e anticipavano i
dibattiti critici sul corpo e sulla sessualità che avrebbero impegnato gli
artisti di tutto il mondo a partire dagli anni Sessanta e Settanta. Gli
acquerelli degli anni Trenta e Quaranta sono incentrati su un repertorio di
oggetti ricavati dall’esperienza personale: pellicce, che la madre vendeva in
una piccola bottega, protesi per arti, che costituivano l’attività dello zio
prediletto; letti di contenimento che l’artista vedeva andando a trovare la
madre in manicomio oppure oggetti che intrattengono una stretta relazione con il
corpo: dentiere, pennelli da barba, scarpe a punta così come genitali e lingue
che si contorcono.
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